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biografia di A.Casè

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Un gentiluomo che segue gli attimi fuggenti della vita...  

                                                                         di Angelo Casè



Di origine sciaffusana (oriundo di Neunkirch per la precisione), nasce a Zurigo il 28 giugno 1894. Nel 1907 la famiglia trasloca a Basilea, dove l'adolescente completa gli studi, conseguendo la maturità federale. Nel 1913 s'inscrive alla facoltà di architettura del Politecnico di Zurigo e l'anno successivo ha il primo contatto con il Ticino, adempiendovi gli obblighi militari: passa così in rassegna gran parte del nostro territorio, dal Sottoceneri al Gambarogno alle valli alte, specialmente la Leventina che conosce a palmo a palmo e che diviene per lui una specie di miraggio, al punto che nel '32 vi costruirà una baita nel verde silente di Rodenche, sopra Giof.

Durante una tregua concessagli tra la scuola reclute e quella di sottufficiale, asseconda il gran richiamo che lo attira verso il sud: assieme all'amico direttore d'orchestra Robert Denzler compie il suo primo viaggio in Italia, entusiasmandosi per le bellezze artistiche dei musei di Genova Firenze Roma Napoli. Purtroppo i tempi grami della mobilitazione dell'agosto 1914 lo costringono a interrompere gli studi. Quando si accinge a tornare al Poli, vuoi per le positive impressioni riportate dal soggiorno italiano, vuoi per il fatto che nella regolamentazione scolastica nel frattempo era stata inserita, quale materia obbligatoria, la lezione di modellaggio, scatta in lui la decisione capitale di diventare scultore.

Infatti, fin dai primi tentativi, viene incoraggiato a insistere dal professor Graf: e lui medesimo è stupefatto per il gran piacere che lo anima nell'operare con la creta, nell'imprimere atteggiamenti umani al grumo inanimato della materia. Alla conclusione del semestre, decide di dedicarsi definitivamente alla scultura e durante le vacanze estive lavora come apprendista nell'atelier Baldin nella Zeltweg: vi eseguisce alcune statue con l'entusiasmo del neofita, ricevendo gli elogi dello scultore Hermann Hailer.





Ma le creazioni in argilla non lo appagano del tutto: vuole imparareil cosiddetto «taglio diretto» nella pietra e per cimentarsi in quest'operazione alquanto ardua si trasferisce nell'atelier di Otto Kappeler sulla Sihl: qui s'impegna con passione sempre crescente, innamorato della rude perfezione del sasso con cui lottare per cavare la giusta espressività di una fattezza umana. Impratichitosi del mestiere, si risolve a tornare a Basilea per affittarvi, alla Petersgasse, lo studio di Hannes Joery.  In questo periodo, segue i consigli preziosi di Louis Weber e si vota alla copia di opere egizie o greche «Heracles» per esempio, oppure una scattante testa equina del Partenone). Importanti si rivelano i contatti con gli scultori Scherrer e Carl Burkhardt (con cui collaborerà più tardi, unitamente a Hummel, allorquando si tratterà di scolpire gli animali attorno alla fontana posta sul piazzale della «Badiscen Bahnhof»). E finalmente giunto il momento di acquisire quell'indipendenza rigorosa che lo distinguerà nel prosieguo della sua carriera: si sposta in un suo piccolo atelier alla Kannenfeldstrasse e, nel luglio del 1918, si sposa con Emma Gobbi di Piotta, conosciuta appunto durante le manovre militari: e connubio migliore non poteva avvenire, essendo stata la moglie donna di gentilezza d'animo rara con chiunque l'avvicinasse, assertrice incrollabile della piena fiducia nella vita, che, secondo lei, andava vissuta in una continua fattiva verifica del bello e del buono: donna che sempre fu vicina allo scultore, anche nelle faticose operazioni materiali del getto del gesso nei calchi negativi, ansiosa quanto lui per la buona riuscita della colata: ma briosa di linguaggio, francescana negli atteggiamenti, sollecitata da qualsiasi spunto culturale che potesse arricchire e confortare la loro unione. Non starò ad elencare le opere realizzate durante questi primi anni di attività libera: basterà segnalare come sia stato un periodo fecondo, nel quale l'Uehlinger avvia un filone di ricerca che subito lo pone in posizione di riguardo nell'ambito nazionale: la ritrattistica, non già «cimiteriale», cioé levigata secondo gli stanchi canoni accademici in voga: bensì palpitante di vita, intrisa di quell'impressionismo plastico che più tardi, in occasione della Biennale veneziana del 1950, vedrà sublimato nelle figure ivi esposte di Medardo Rosso (uno dei punti fermi di riferimento cui tenderà nelle sue creazioni posteriori: l'altroriferimento essendo, assai prima che i mass media ne propagandassero in bene e in male la risonanza, Alberto Giacometti e la sua ostinata tensione umana). Lavora dunque assiduamente: imodelli li ha sottomano, la moglie e il figlio Enrico (più tardi altre due figliole, Selin ed Elena: e via via nipoti e abbiatici e amici loro, un girotondo di bambini tale da formare quello che sovente, rimirando con severo senso critico ciò che ha modellato in tanti anni di scrupolosa indagine sulle fisionomie puerili, confessa essere II suo «giardino d'infanzia»). Quasi per disintossicarsi dal frastuono della grande città portuale, non tralascia di tornare a meridione delle Alpi, in una spola che gli fa maggiormente apprezzare sia il paesaggio sia la mentalità ticinesi: sicché, nel 1924, pianterà tenda stabile in quel di Minusio. Per dire insomma come, uomo ipersensibile com'era, si sia lasciato invaghire dall'orografia delle nostre regioni e dalla luminosità dell'atmosfera (è stato gagliardo escursionista e scalatore), al punto di divenire in breve volger di tempo più ticinese di tanti Ticinesi quivi cresciuti: e ne rimangono palpabile testimonianza gli interessi civici che lo videro impegnato in campo municipale e in campo cantonale sui banchi del Gran Consiglio. Prima di stabilirsi sulla riva del Verbano, il sogno costante di approfondire in loco ciò che altri artisti avevano sperimentato per quanto riguarda la «monumentalità» dell'opera (oh, l'osannato Rodin del ritratto di Balzac: la complementarità rigorosa di forma e spazio nei «gruppi familiari» di Moore: l'essenzialità del rumeno Brancusil) lo induce a partire per Parigi.

Sarà un soggiorno di tre anni (1920/23), importante per l'offerta a getto continuo di occasioni di raffronto, per il fermento che attizza ogni settore della cultura: Parigi assume dunque una funzione giornaliera di cartina al tornasole per il giovane, che filtra gli innumerevoli fuochi lasciando depositare nell'anima le braci maggiormente vivide.







Frequenta l'Accademia Grande Chaumière sotto la guida di Bourdelle, di seguito la Colarossi con insegnante Marcel Gimond. Ma la soddisfazione massima gli viene dalle visite ai musei e alle gallerie, dall'ascolto di concerti classici e di pièces teatrali, dalla scoperta di libri sulle bancarelle ai margini della Senna: stagioni memorabili che di tanto in tanto riaffiorano: ricordo il piacere che lo accompagnava ancora ultimamente rileggendo gli appunti e le lettere di Rilke su Rodin (di cui fu per breve tempo segretario): o ancora l'interesse suscitato dalla lettura della «Festa mobile» di Hemingway o dell'autobiografia di Gertrude Stein.

È un'euforia che gli spalanca la visuale: lo trascina a incontrare Maillol a Marly-le-Rol, rimanendo incantato dal suo orientamento artistico, dove serenità e severità fanno tutt'uno. La felicità di questo triennio è documentata da numerose opere: su tutte però valga la statuetta intitolata «L 'attesa», la donna incinta che pare condensare tutti i fremiti e le ansie della prossima maternità, una figura tutta interiorizzata, di fronte alla quale ci si può sentire intimiditi tanto immenso è il mistero che dà forma a quel grembo. E questo non dico per retorica: puramente per commozione nell'accostarmi a tanta semplicità volumetrica, a tanta compostezza, a tanto compatto sentimento che pare dia suono alle aspirazioni più nobili del genere umano.

Nel contempo l'Uehlinger ritrova alcuni amici svizzeri pure espatriati in cerca di novità e di pungoli: II pittore basilese Rudoff Maeglin (col quale avrà contatti affettuosi fino alla morte avvenuta nel 1971) e lo scultore zurigano August Suter: sarà proprio quest'ultimo a portargli nell'atelier (allogato alla periferia meridionale della metropoli, presso una fattoria di cavalli) tre scrittori interessati alle arti plastiche e figurative: l'ex-marinaio Frank Budgen, il romanziere John Vuillemier e l'irlandese James Joyce, iI quale aveva già pubblicato «A Portrait of theArtist as a Young Man» e i deliziosi «Dubliners» e che stava elaborando l'Ulysses. A proposito di Joyce, appena si riesca a far breccia nella discrezione dell'Uehlinger, numerosi e gustosi sono gli aneddoti che ne vengono a galla, giacché le visite reciproche dei due amici con le rispettive figiolanze furono frequenti a Bourg-la-Reine alloggiando lo scultore, in Boulevard Raspail il narratore, già famoso per le sue provvisorie dimore e i relativi bruschi traslochi. Ebbero rapporti cordialissimi: l'uno spiegando l'architettura e la tematica del capolavoro cui stava, tormentandosi, dando forma compiuta e che doveva sollevare tanto contraddittorio scalpore: l'altro esternando sicuramente l'emozione provata davanti ai rilievi drammatici del «Giudizio finale» che Gislebertus aveva scolpitonel 1130 sul timpano del portale della cattedrale di St.Lazare ad Autun. Insomma, anche queste corrispondenze di sottili intuizioni non mancarono di decantare nell'Uehlinger quell'humus umanistico che lo ha sempre contrassegnato: e ancora oggi lo sospinge, giustamente curioso e vigile malgrado la tarda età, a recarsi laddove sappia di una manifestazione (di scultura, pittura, letteratura o musica) che lo possa intrigare intimamente.

In terra ticinese, non ancora violentata dai graffi del vetrocemento, si forma una cerchia d'amici, cui l'Uehlinger rimarrà fedele, visti i comuni ideali che ne intrecciano gli incontri (cerchia che purtroppo, anno dopo anno, s’é andata quasi del tutto sfoltendo): conosce Giuseppe Foglia, Edoardo Berta, Bruno Nizzola - compagno fraterno per eccellenza - :








per il loro tramite si accosta all'arte squisita di Pippo Franzoni; tra i confederati qui residenti avvicina Wilhelm Schwerzmann, Hugo Strauss, Emil Sprenger, Ernest Zuppinger, Ugo Cleis; d'oltre Gottardo scendono per periodici soggiorni Otto Roos, Léon Perrin, Alexandre Cingria, Carl Roesch e il già citato affezionato Maeglin; dalla vicina Ascona si uniscono la Werefkin (per la quale l'Uehlinger eseguirà la croce ortodossa sulla lapide tombale nel '38), Mc Couch, Muller, Epper, Pauli, Schùrch, Frick e quanti mai altri ancora, essendo la casa di Via San Quirico una sorta di porto di mare, in cui ciascuno veniva accolto con rara cortesia e nativo altruismo.

Corroborato dall'ambiente familiare ottimale e da una simile corona di vivide amicizie, ben assimilato con la gente della regione che sempre più lo stima per la saggezza e la signorilità d'animo, egli si butta in un'attività imponente. Specialmente il quadriennio dal 29 al '32 esalta, se così posso dire, l'aspirazione sua al «grandioso». Ne fanno da spia due lavori emblematici, uno profano, l'altro sacro: il «traghettatore» (o ormeggiatore) in sasso rosso, situato sul molo di uno dei porti fluviali a Basilea (lo «Schifflände»), che raffigura un uomo che tira la fune della chiatta, un fluire di muscoli vibranti, un'armonia di masse tese allo spasimo, autentica concentrazione di forza fisica; e le stazioni della Via Crucis (con la sequela dei simboli evangelici ed ecclesiastici) per la Chiesa di Sant'Antonio pure nella città renana: motivi plastici dai quali trasuda la concezione religiosa dello scultore, che per il tramite di una figurazione intensa e dolorosa dell'umanità nel segno del Cristo, svela la sua interna indole commista di pietà e carità verso il prossimo. Sciolta la mano e rassicurato l'occhio nell'impostare lavori ad ampio respiro, inizia la seriedelle statue/ritratti per fontane: nel 1938 quella dello storico Johann Jakob Rùeger, posata nel chiostro del Museo Allerheiligen a Sciaffusa; nel '40, la «Mietitrice» su una piazza di Neunkirch; nel '42, il «Conciatore» a Sciaffusa. Sempre in questa città (quasi a voler smentire il detto «nessuno è profeta in patria») troviamo il monumento a Johann Conrad Fischer (del 1951) e i rilievi in sasso per un «angelo» nella Cattedrale (1955), e per i fratelli Johann e Georg von Muller (1958), insigni personaggi dell'ottocento: l'uno, giurista e storico di fama europea (amico di Karlvon Bonstetten, con il quale i Ticinesi dovrebbero aver dimestichezza per aver lasciato non poche pagine sulle condizioni di vita delle nostre vallate): l'altro, pastore protestante di temperamento incisivo. Nè va scordato il rilievo, eseguito nel 1923 per la capanna del Club Alpino Svizzero al Todi e raffigurante il glaronese San Fridolino: quasi una sigla per scandire l'affezione dello scultore per le montagne.Ma, al di là di questi lavori pubblici, credo che la vitalità più scattantedell'Uehlinger vada ricercata nei «ritratti» eseguiti unicamente per suo piacere. Basta una visita al suo atelier per avallare questa opinione.Sotto la vetrata obliqua che permette alla luce di filtrare pacata dal versante nord verso la collina, si allinea parte del suo mondo più autentico, restituito da gessi patinati dal tempo o da cere color d'avorioancora fresche e duttili al lieve alito luminoso: visi maschi e muliebri e d'infanti, mutevoli a seconda dell'ora e dialoganti fra loro. Qui, nell'ampio locale (sulla mensola i ferri del mestiere, le pipe, i lapis: al gancio dietrol'uscio il grembiulone candido che indossa quando modella, il cappello di paglia che lo protegge dal sole quando scolpisce all'esterno; alle pareti alcuni quadri del Nizzola e un solare ritratto del Franzoni) trascorre una buona porzione della giornata, iniziata immancabilmente alla tastiera del pianoforte, suonando un preludio dal «Clavicembalo ben temperato» dell'amato Bach.









Qui, esile come un giunco, ma robusto nello spirito anche dopo che il destino avverso ha voluto di recente colpirlo crudelmente negli affetti più genuini, egli insiste sulla massa di grigia creta adagiata sul trespolo girevole: un 'occhiata al modello (di preferenza bambini, sul viso dei quali vede illuminarsi un'innocenza incontaminata, quasi da premondo, un colpo di pollice ben assestato, una pressione con l'indice, una sorta di carezza col palmo, togliendo qui, aggiungendo là, finché la testina assuma iI giusto volume, giri compatta come un ciottolo di fiume: mai ricusando egli i paragoni che gli suggerisce la natura (quand'è intatta, non tradita, spiega sovente: com'è lassù sul Sassello, regno delle aquilegie turchine e delle gazze spavalde: o sul Cervino, scalato in gioventù: luoghi di sicuro ancora vagheggiati oggidì, appena il pensiero gli conceda una pausa).

Dunque, dicevo, nello studio chiaro e silenzioso: figure femminili su zoccoli di legno, accoccolate, o sedute, o chiuse dentro un'elisse, vibranti o tranquille, annodate in se stesse direi, a formare blocchi pudichi e inaccessibii, misteriosi e allusivi, bianche del gesso che le struttura (mai offensive/ espansive, modulate dalla quiete degli anni): figure schive come chi ne seppe carpire l'equilibrio più che fisico interiore.E una simile riservatezza, credo di ritrovare, forse più palese, nella fisionomia degli «anziani»: l'accorata bonomia e introversa dell'ex minatore; l'arguzia diffidente dell'ortolano Nicola; l'intricata pensositàdell'operaio stanco, seduto con sulle spalle tutto il peso della ferialità più oppressiva: l'acquietato dissidio interiore del«Filosofo».

O l'immaginoso gioco mi avvince dei bimbi: i loro ammicchi, i bronci, i sorrisi, gli stupori perchissà mai quale fugace apparizione (un ragnolino sulla parete?) o quale improvviso fruscio (guaito, cinguettio) di là dalle finestre. Mirabili visi, birichini o assorti o intenti a loro favolose fughe: ma immediati tutti, mobili, per nulla intimiditi dagli sguardi indagatori dell'artista che, modellando, inseguiva ogni minimo sospetto della loro nascente umanità. Volti taluni fermati al momento giusto, nel preciso istante in cui le fattezze appena schizzate erano già essenziali segni e duraturi di vita: abbozzi rabbrividenti per una felicità irripetibile (si vedano, ad esempio, Morena, Alessandro e Rossana).

E una sfilata di testoline smagate, ilari (ma con moderazione), perfino corrucciate (come sanno esserlo in quella età beata, per la durata di un lampo), o immalinconite (durante l'attimo che occorre alla farfalla per giostrare da fiore a fiore): mimiche irrefrenabili, che accentuano lefossette delle guance, le increspature di un labbro, il tagio degli occhi che sembrano guardare verso mondi lievitanti oltre il nostro, arruffato da discordie e tumultuoso (si osservi la sofferenza tutta intima di Gisèle, la profuga che trovò ospitalità con altri diseredati, qui da noi, durante la guerra; o la furbizia malcelata del «Monello»).Una constatazione si staglia inequivocabile davanti alle morfologie facciali studiate dall'Uehlinger: esse denotano atteggiamenti di pace interiore, di pene trattenute, di letizia appena confessata: comunque mai pigli battaglieri. Infatti egli non è mai stato scultore polemista, il suo temperamento - pure risoluto e coerente con determinati principi - ha sempre rispettato quanto di positivo alberga nel prossimo: è l'artista del colloquio, dell'onestà. Già gli riconobbero questa qualità i primi critici (quando espose, nel 1923, al Salon des Indépendants a Parigi con Zadkine, Lipchitz e Laurens, additando nelle sue opere «une rusticité saine et franche»: e ancora nel 1932, quando presenziò alla Biennale di Venezia). Insomma, agisce in lui una perizia innata che lo porta a individuare la vera identità del soggetto che ha dirimpetto e a plasmarla senza stucchevoli decorativismi: è una fedeltà di motivazioni, la sua, che si recepisce con maggiore evidenza nelle espressioni, di poco varianti superficialmente, ma quanto in taluni dettagli, di una stessa testa: quelle, in particolare, dei familiari più stretti. Allora si avverte come una minuzia nella forma possa definire gioia o dolore, apprensione o riposo, faticata ritrosia o sopportazione cristiana.










E questo il suo credo artistico, almeno da quanto posso dedurre da una pluriennale vicinanza: convinto com'è che basti una nube per far vivere il cielo, una foglia per far palpitare un ramo, grazie a un'osservazione penetrante, oculata, sostenuta da una salda moralità, egli vuole andare oltre l'apparenza nuda e cruda del reale per attivare, togliendo il superfluo, le verità interiori. Ne è nata una galleria composita di umili: fanciulli (perfino di pochissimi mesi), giovinetti (allarmati da problemi esistenziali), donne (nelle attestazioni loro più vitali), anziani (raccolti a formularsi taciti consuntivi entro la ragnatela di rudimentali filosofie): ciascun ritratto colto nella sua maturazione psicologica. Questo iter dall'esterno all'interno del modello, e vice-versa, al fine di lasciarne aggallare il timbro distintivo, è documentato peraltro da una serie quotidiana di disegni (negli anni passati, tracciati con il soffio appena percettibile della punta d'argento o con il lapis: oggi, con secchi segni di pennarello). Attraverso reticoli di linee che nulla concedono all'effetto fittizio, appaiono i volti conosciuti del suo sodalizio umano:scandagliati con l'identico puntiglio per arrivare a confessioni non effimere. E uno scavo che prosegue con invidiabile ostinazione ogni mattina, ogni pomeriggio, pausato appena da sostanziose letture. Per additare, in conclusione, come sia degna l'esistenza di questo vegliardo, il quale ha saputo ascoltare con benigna attenzione le esigenze più profonde del proprio spirito, rinsaldando abitudini coltivate in tempi in cui

umanesimo e umanità andavano di concerto.


                                                               Angelo Casè,  Minusio, 25 giugno 1980